Vado a votare, non so bene turandomi
quale orifizio e pertugio, ma vado con la convinzione che il gesto
(di votare) aiuti esattamente come il sano masochismo di chi, già
sazio, vuole finire la Nutella, per vuotare il vasetto e gettarlo
nella differenziata.
Buttato il voto nell'urna
(differenziata?), trascino Jacopo fuori dal seggio di Islington,
dove si era insediato (lui al pari del seggio) giocando con l'Ipad.
"Hai già vomitato?"
"Votato! Jacopo, votato!"
Ma forse anche vomitato, un getto
veloce, raccolto su un pezzo di carta secca grigia e forse riciclata.
Dicevo: lo trascino fuori: a due
passi dalla sede del patronato CGIL (dove si consumano le primarie
del centrosinistra con scappellamento a destra sorella) nascosto
all'angolo di Canonbury Square*
a mezzogiorno in punto apre l'Estorick,
una delle più importanti collezione di arte moderna italiana
all'estero.
Una casa giorgiana, più bella, per il
verde intorno, in primavera che d'inverno, proprietà di una coppia
americana, gli Estorick appunto, ricca abbastanza da
collezionare fin dagli anni quaranta le opere dei nostri pittori e
scultori più noti, i futuristi in particolare.
In questi giorni e fino a fine mese
l'Estorik ospita il primo Bruno Munari, un autore, anzi
una personalità, che amo tanto.
Una specie di uomo rinascimentale post
litteram, interessato al disegno, alla scultura, alla pittura,
pioniere della grafica pubblicitaria, del design nel
marketing, e della pubblicistica per bambini, eclettico creativo
colto, appunto una specie di Leonardo futurista.
La mostra (due stanze al piano terra)
si intitola My futurist past, un gioco verbale alla Rodari...
Munari era un po' rodariano e forse anche il contrario: la
pratica di confondere il significato con il significante,
aggiungendo descrizione, grafia, oggetto alla o alle parole
divertendosi tanto.
Un capolavoro di Munari
rimane il suo Dizionario dei Gesti, un libro non ad uso di noi
italiani, ma tradotto (!) da regalare agli stranieri e agli
inglesi in particolare, solo quando ovviamente il resto del mondo
mostra di volerci conoscere o crede di conoscerci.
Nessun al mondo usa le mani, la faccia,
il corpo per veicolare sentimenti, passioni, sublimi e infimi
concetti come noi italiani. Qui si tende a apostrofare tutte le
avversità della vita con un shit o con un f*c*; la
variante sta in qualche proposizione aggiunta (off, up), nel
gesto di allontanare la birra dal petto, buttando lì uno sguardo
vitreo, arrabbiato, da avvinazz... abbirrazzati.
Noi mandiamo fisicamente affan* e
buttiamo tutta la rabbia fuori, insomma a noi che quella cosa importa
o non importa sono le nostra dita a indicare.
Tiè è un gesto, un romanzo
intero; la pernacchia è una, anche trina all'occorrenza. Con questo
non ci si considera migliori, piuttosto più ricchi, articolati, nel
senso che usiamo gli arti, ma anche gli altri o le arti.
L'ironia da noi non è una parola,
l'umorismo non è un senso dell', ma sono entrambi un gesto,
oppure parole che sono gesti, non allocuzioni fini a se stesse.
Almeno così credo.
E con l'inutile retorica, tipica di chi
deve trarre una conclusione, da cui fare uscire un po' di senso, Bruno Munari, perché gli assomigliamo, è davvero...
italiano.
(C'era due volte) Il fra
*basta, scendendo da Angel lungo Upper Street, deviare a destra; una volta visitato, l'Estorick sembrerà un po' datato: uno svecchiamento gli gioverebbe, ma questo può dirsi di noi e dell'intero Stivale.
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Concavo convesso, 1946, una delle prime installazioni dell'arte moderna italiana, in mostra all'Estorick |
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